Sempre più frequentemente nella scuola italiana si parla di casi di bambini con “dislessia”, “disgrafia”, “disortografia”, “discalculia”; difficoltà spesso racchiuse nell’espressione più completa “Disturbo Specifico dell’Apprendimento”, il cui acronimo è DSA.
Difficoltà che si declinano nella sfera della lettura, della scrittura, del calcolo che spesso alterano in modo significativo il curriculum scolastico dell’alunno che le presenta.
Tali disagi ovviamente non hanno una ricaduta circoscritta al solo ambito specifico della lettura, della scrittura e/o del calcolo, ma inficiano significativamente anche l’autostima e la motivazione all’impegno didattico in seguito ai frequenti insuccessi scolastici che questi bambini registrano.
Il confronto quotidiano con il gruppo classe per questi bambini non è semplice: la certezza di essere fallimentari in un compito, talvolta li spinge alla rinuncia dello stesso. Si tratta, infatti, nella maggioranza dei casi, di bambini pienamente consapevoli del loro disagio e non di rado rinunciatari dinnanzi ad una consegna dell’insegnante.
Si deduce, da quanto riportato, che di fondamentale importanza è la figura del Pedagogista Clinico che riesca a lavorare con un approccio globale e sull’ambito motivazionale e sul potenziamento dell’autostima e, nel contempo, sul disturbo specifico che il bambino presenta.
Il Pedagogista Clinico è infatti l’operatore che, nell’ambito di un trattamento per un bambino con Disturbo Specifico dell’Apprendimento, pianifica come intervenire in modo “globale”, utilizzando tutte le risorse che possono essere funzionali alla riuscita dell’intervento.
A tale scopo è utile ricordare che anni addietro, molti bambini sono stati mortificati per le loro difficoltà scolastiche e sovente additati come “svogliati” o “incapaci”, non solo dalle insegnanti ma talvolta anche dai genitori che vedevano fallire le aspettative che avevano sul proprio figlio.
Negli ultimi decenni, le ricerche e gli studi hanno permesso di dare un nome a questi disagi consentendo a tali bambini di essere tutelati nel loro diritto allo studio. Si tratta, dunque, di una “tutela” non limitata alla sfera degli apprendimenti ma estesa al piano emotivo e pertanto quanto mai importante ( e necessaria!) per sostenere il bambino con difficoltà, aiutandolo ad integrarsi nel contesto classe senza sentirsi “diverso”.
A conferma di ciò, la recente legge 170 dell’8 ottobre 2010, è stata promulgata appunto con l’intento di tutelare bambini e ragazzi che nell’ambito della carriera scolastica presentano tali difficoltà, garantendo loro pari diritti rispetto ai bambini che non presentano questo tipo di problemi.
Ma…qual è il nesso tra Pedagogia e DSA?
Ciò che alla pedagogia interessa, è “accompagnare” il bambino nel suo processo di crescita; nei suoi apprendimenti; nella sua educazione.
Il termine stesso, è noto, ha origini greche e precisamente deriva dalla parola pais che significa “bambino” e αγω che significa “guidare”, “accompagnare” .
Mentre nella Grecia antica il “pedagogo” incarnava letteralmente il significato della parola, essendo ovvero l’ “accompagnatore” dei fanciulli quando andavano a scuola e/o in palestra, con il passare dei secoli il significato originario della parola pur conservandosi, ha acquisito una connotazione diversa soprattutto relativamente alle modalità in cui la pedagogia interviene. Ciò che deve essere sottolineato è per l’appunto il “modo” nonché il “tempo” in cui l’intervento pedagogico si esplica.
Il pedagogista non è colui, come d’altronde non lo è nessun altro professionista, che possiede la chiave di volta per risolvere i problemi o le difficoltà che un bambino e/o la sua famiglia presentano, ma è colui che, attraverso un intervento graduale, intende “accompagnare” il bambino nel suo processo di crescita. La risorsa principale cui fa appello è la “phronesis”, nell’accezione offerta da Aristotele nell’Etica Nicomachea, intesa come “saggezza pratica”: un agire funzionale al problema usufruendo delle risorse presenti nel campo in cui opera.
Il Pedagogista è colui che, prese in considerazione le risorse che la situazione offre, le sfrutta con “creatività”. Il concetto stesso di “creatività” è risorsa!
La creatività, nel rapporto con l’utente, sia esso un bambino con DSA sia esso un adulto con difficoltà relazionali o di altra natura, permette di lavorare sull’ hic et nunc, attenzionandosi non alle carenze ed ai disagi dell’utente, ma alle risorse che quell’utente possiede in modo “creativo”.
In sanscrito il termine “creatività” è tradotto con “Kar- tr”, ovvero “colui che fa”, “colui che è in grado di creare dal nulla”.
Facendo riferimento ad un bambino con Disturbo dell’ Apprendimento, non si può parlare di una creatività che si fonda sul nulla ma di una creatività che, prendendo in considerazione tutti gli elementi presenti nel campo, li utilizza per il proprio utile ovvero per la buona riuscita dell’intervento specifico.
Perché sottolineare l’importanza del concetto di ”creatività” negli interventi pedagogici?
Un trattamento per un bambino con DSA richiede un minimo di 20 ore di intervento in casi lievi, ma può dilungarsi per oltre 6 mesi nei casi di bambini che presentino un DSA significativo. Appare ovvio, dunque, che conducendo un intervento clinico seguendo un’unica traiettoria ed un unico modus operandi, oltre a non essere produttivo negli esiti, diventa anche ulteriormente pesante per il bambino che già risente delle difficoltà scolastiche e dei disagi che pertanto quotidianamente si ritrova a fronteggiare.
Prendere in carico un utente con DSA , o con qualsiasi altro tipo di disagio, di difficoltà, deve comportare da parte dell’operatore, un intervento che nella maggioranza dei casi, non deve declinarsi unicamente nella sfera della difficoltà precipua, ma deve inglobare i vari campi che le fanno da sfondo.
In questo modo di operare, “globale”, “creativo”, è possibile leggere l’ “unicità” dell’intervento educativo – clinico che, in quanto tale, fronteggia anche la demotivazione e la bassa autostima degli utenti.
Potremmo concludere affermando che il Pedagogista, come tutti gli operatori che sono impegnati nel campo educativo – clinico, ha lo scopo di “concretizzare” con i bambini con i quali si trova a lavorare, il significato originario della parola “educazione”. “E- ducere”, dal latino, significa per l’appunto, trarre fuori, ovvero liberare le capacità che il bambino ha nascoste in sé. Anche quando si lavora con un utente che presenti un DSA severo, le risorse che quel bambino ha racchiuse in sé restano uniche e singolari, com’è caratteristico dell’essere umano in quanto tale. Quindi risulta opportuno o, per meglio dire necessario, che l’operatore che lavora in questo campo, escluda la possibilità di poter approcciarsi al bambino proponendogli un tipo di intervento “preconfezionato”. Com’è vero che ogni essere umano è unico ed irripetibile, allo stesso modo l’intervento con il soggetto con DSA deve essere analogamente unico ed irripetibile. La conoscenza della teoria è l’unico fattore comune ai vari interventi, sulla quale bisogna costruire creativamente ogni singolo percorso educativo – clinico che favorisca lo sviluppo nell’utente non solo delle risorse che egli possiede ma anche e soprattutto l’acquisizione della consapevolezza di possederle.
Simona Caserio | Pedagogista Clinico
- Stella; La Dislessia; Ed. Il Mulino; 2004
- Savelli; S. Pulga; Dislessia Evolutiva; Ed. Erickson; 2010
- Wolf; Proust e il Calamaro; Ed. Vita e Pensiero; 2009
SINPIA; Linee Guida per il DDAI e i DSA; Ed. Erickson; 2006